Il diritto di essere tristi: come la felicità a ogni costo ci rende schiavi.

Non abbiamo il diritto di essere tristi. La felicità è un dovere che noi tutti dobbiamo assolvere è un bene da acquistare, preservare e mostrare al mondo. Viviamo in una società consumistica in cui la tristezza, le frustrazioni, le malinconie sono nemici da sedare a ogni costo perché sinonimi e sintomi di debolezza. I social network ci bombardano quotidianamente con post motivazionali e aforismi sulla ricerca spasmodica del successo e della felicità e secondo i quali la nostra tristezza ed eventuali emozioni spiacevoli o debolezze, dipendono esclusivamente dal nostro atteggiamento negativo nei confronti della realtà che ci circonda.

Ma è davvero così? La felicità, riprendendo le parole del celebre Russ Harris, è una trappola. Sin da piccoli siamo stati educati a essere in grado di dominare e controllare le nostre emozioni e infinite volte ci siamo sentiti ripetere frasi come: “Tirati su!”, “Non essere triste!”, “Sii positivo!”, sperimentando in altrettante occasioni come, in realtà, abbiamo molto meno controllo di quanto vorremmo su sentimenti e pensieri. E non c’è assolutamente nulla di sbagliato in questo: la sofferenza è connaturata al nostro esistere come esseri umani.

Il paradosso, così come ci insegna la terapia cognitivo-comportamentale ACT (Acceptance and Commitment Theory), è rappresentato dal fatto che più cerchiamo di lottare per annullare e respingere la tristezza, evitandola, più la stessa acquista potere e aumenta, generando un incremento esponenziale della nostra sofferenza. Così come accade in ogni forma di dipendenza di sostanze o in varie manifestazioni di disagi psichici, come quelli che definiscono il disturbo ossessivo-compulsivo, la psicopatologia si rivela molto spesso essere la risultante del tentativo disperato e infruttuoso di schivare l’esperienza di sensazioni inevitabili e umane quali la tristezza, l’ansia, il dolore.

La rincorsa spasmodica alla felicità e il desiderio di controllo sulle nostre emozioni ci conducono per mano all’interno di una gabbia, all’interno della quale ci sentiamo dominati da sentimenti di inadeguatezza nei confronti di noi stessi e degli altri. La cultura dell’ottimismo veicolata da Internet e dai social network ci fa sentire inadeguati nei confronti di vite perfette e felici, di lavori dei sogni, di standard estetici inverosimili e irraggiungibili.

Viviamo, come ci raccontano lo psicologo spagnolo Edgar Cabanas e la sociologa israeliana Eva Illouz, all’interno di una Happycracy, in un regno dominato da una felicità banalizzata a tal punto da poter essere addirittura misurabile attraverso una formula: H=S+C+V, dove H (Happiness) rappresenta il nostro livello permanente di felicità, S (Set range) identifica la nostra quota fissa, C definisce le circostanze della nostra vita e V i fattori che derivano dal nostro controllo volontario.

Ora più che mai è importante reclamare il nostro diritto a essere infelici per ritrovare la capacità di riconoscerci in noi stessi. Seguendo i principi cardine dell’ACT dobbiamo allenarci a far convivere l’accettazione nei confronti dei sentimenti negativi e l’azione nel tentativo di migliorare la nostra vita e la nostra condizione. Da un lato lasciando che emozioni e pensieri scorrano liberamente, senza costrizioni e senza identificarci con essi, dall’altro connettendoci con i nostri valori più profondi, affinché gli stessi si tramutino in iniziative in grado di rendere la nostra vita appagante e meritevole di essere vissuta, anche nella tristezza.

In collaborazione dello Psicologo Pescara, il Dr. Alessandro Bellardi Falconi

Condividi

Ultimi articoli

Le Conseguenze di una scelta

Ogni scelta rappresenta una decisione, che può essere consapevole o meno. Ogni azione, anche l’inerzia, costituisce una forma di scelta. Tuttavia, la complessità delle decisioni