Gli hikikomori e la pandemia da covid- 19

La pandemia globale ci ha cambiato. Ha influenzato il nostro modo di vivere con gli altri e ci ha fatto sperimentare situazioni di isolamento alle quali non eravamo abituati e con le quali probabilmente mai avremmo pensato di doverci mettere alla prova. Ma c’è chi queste forme di ritiro sociale le aveva già da prima volontariamente abbracciate.

Parliamo degli hikikomori o, più formalmente, shakaiteki. Si tratta di ragazzi, principalmente di sesso maschile e di età compresa tra i 14 e i 30 anni, che hanno adottato una risposta di ritiro e isolamento volontario dalle doverizzazioni richieste e, a volte imposte, dalla società alla quale appartengono. Un’auto-esclusione che prevede l’azzeramento di ogni contatto diretto con il mondo esterno e che li porta a rifugiarsi all’interno delle loro abitazioni e, nei casi più gravi, della loro camera per lunghi periodi di tempo (da alcuni mesi a diversi anni). Un fenomeno nato in Giappone, ma che con il passare degli anni si è diffuso, come manifestazione di disagio adattativo e sociale, anche in altri paesi economicamente sviluppati, Italia compresa.

Ma come avranno vissuto la quarantena gli hikikomori? Trovare una risposta univoca a questa domanda non è sicuramente facile. Sicuramente la reazione sperimentata potrebbe essersi modulata a partire dalla condizione all’interno della quale l’hikikomori stesso si trovava al momento della chiusura.

Potrebbe essere ipotizzata la compresenza di tre possibili scenari: il primo potrebbe essere quello costituito dagli hikikomori che stavano cercando di guarire, soggetti che prima dell’emergenza sanitaria stavano affrontando in maniera proattiva la loro condizione di esclusione sociale, o che stavano in qualche modo resistendo alla tentazione di soccombere al desiderio di ritiro e che, con la pandemia, potrebbero aver subito un aggravio della loro situazione. La chiusura forzata e generale alle quali noi tutti siamo stati costretti, potrebbe infatti averli privati degli unici appigli che riuscivano ad ancorarli al mondo esterno, come ad esempio la scuola.

Un altro scenario potrebbe essere rappresentato invece da chi sperimentava già una sorta di pulsione all’isolamento sociale, senza ancora averla consciamente elaborata e dunque effettivamente abbracciata. Il lockdown potrebbe essere stato un propulsore acceleratore di questa tendenza, reo di averla in qualche modo legittimata e giustificata e di aver liberato i soggetti dagli eventuali sensi di colpa o di vergogna.

La situazione più grave potrebbe essere infine quella nella quale versano gli hikikomori che non avevano intenzione di affrontare il loro problema. Questi soggetti, che da un lato si trovano probabilmente in una situazione ancora più grave, dall’altro potrebbero in un futuro prossimo incorrere in un forte contraccolpo psicologico quando questa emergenza globale sarà rientrata. Se in piena pandemia potrebbero aver infatti sperimentato la sensazione di sentirsi “normali” e simili a tutti gli altri, una volta che il lockdown sarà finito potrebbero ritrovarsi improvvisamente di fronte alla realizzazione della miseria della loro condizione, una clausura non più transitoria, ma che potrebbe potenzialmente durare per tutta la vita.

Volendo trovare un aspetto positivo all’interno di questa, più che negativa, situazione, si potrebbe credere che questo periodo di reclusione imposta potrebbe aver innescato un processo di empatizzazione con il fenomeno, avendo contribuito a far sperimentare, seppur in minima parte, a molte più persone quelle che potrebbero essere le sensazioni esperite e vissute da un soggetto che sceglie volontariamente di escludersi dalla società.

Alessandro Bellardi Falconi

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