«Se questo è un uomo. Sedici anni con le mani legate e una maschera come quella di Hannibal
Lecter. Non è un criminale, ma un malato. Va cambiato subito il suo piano “terapeutico”». Così esordisce Irene Testa, garante sarda delle persone private della libertà personale, in un lungo post su Facebook. Il soggetto è Bruno, un paziente psichiatrico ricoverato nella struttura Aias di Cortoghiana, nel Sulcis-Iglesiente.
L’uomo è affetto dal cosiddetto picacismo, un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato dall’ingestione continua di sostanze non nutritive. Per questo motivo, da più di 16 anni viene tenuto tutto il giorno con le mani costrette in un paio di vecchi calzini da tennis annodati, fissati alla cintura dei pantaloni. Per la notte, una stanza priva di bagno e arredi. Il tutto… “per la sua tutela”. E non è finita. È costretto a indossare una maschera protettiva, utilizzata normalmente per gli sport da contatto, per impedirgli di ingerire oggetti o cibi potenzialmente pericolosi, che rischierebbero di soffocarlo o avvelenarlo. L’intero armamentario, dall’ aspetto a dir poco inquietante, impedisce a Bruno qualsiasi movimento autonomo.
Il caso di Bruno, come ricorda la Testa, era già stato messo sotto i riflettori alcuni anni fa dalla presidente dell’U.N.A.SA.M. (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale) Gisella Trincas ed era anche stato motivo di esposti alla procura, di lettere indirizzate a Roberto Speranza, l’allora ministro della Salute, e di interrogativi nell’ambito del Consiglio regionale sardo. Prosegue così Irene Testa: «…non sono un medico e non spetta a me dare ricette, magari dal sapore semplicistico perché guidate dall’onda emotiva: sono la garante delle persone private della libertà personale e proprio di persone, di singoli casi ho il dovere di occuparmi». E infine, conclude, «non mi rassegno, non posso accettare che una persona malata venga sottoposta a un trattamento che appare più vicino al concetto di tortura che a quello di cura. Non è però tempo dell’indignazione ma della concreta e rapida azione di tutti gli attori istituzionali che possano dare un contributo a cambiare questa situazione. Questa è una sorta di appello:dobbiamo farlo per Bruno e per tutti gli altri Bruno».
Le immagini di Bruno, tornate recentemente virali, ci parlano tristemente di un uomo su cui vengono imposti strumenti di “protezione” e contenzione non consoni, oltre che indegni, per evitare che possa essere causa di danni a se stesso o agli altri. Sono immagini che, ancora una volta, ci raccontano l’ormai nota storia che parla di carenza di personale, che obbliga l’organizzazione di una struttura sanitaria all’utilizzo della costrizione come misura cautelativa per l’impossibilità di un monitoraggio continuo del paziente. Una soluzione inammissibile anche per la Corte di Cassazione, che precisa come l’uso della contenzione meccanica non sia in grado di offrire finalità curative e non possa migliorare in alcun modo le condizioni di salute del soggetto in cura.
Il rispetto dei diritti umani e della persona dovrebbe essere la premessa necessaria a qualsiasi iniziativa di presa in carico di un paziente. Le comunità socio-assistenziali, come quella in cui il paziente risiede, dovrebbero essere vissute come spazi controllati, accoglienti e, soprattutto, protetti. Ambienti che garantiscano una vita dignitosa a tutti quei pazienti che, che per le più svariate motivazioni, non possono trovarla all’interno del loro ambiente domestico.
La coercizione, incompatibile e in contrasto con il principio dell’inviolabilità e sacralità della libertà personale, dovrebbe essere sostituita dal potenziamento di una rete psicologica e psichiatrica all’interno delle strutture, che possa dare supporto al processo di cura nei confronti dei pazienti tramite l’utilizzo di un approccio multidisciplinare e mirato per l’individuo e che coordini interventi di prevenzione, cura e, se possibile, riabilitazione di quei soggetti, come Bruno, affetti da patologie psichiatriche.
Il collaborazione con il Dr. Alessandro Bellardi Falconi