
Ci è stato detto che la felicità è un dovere, un obiettivo da perseguire con determinazione, un bene da esibire come prova del nostro valore. Viviamo in un mondo che teme la tristezza, che la tratta come un nemico da sedare, un difetto da correggere. I social network ci bombardano con immagini di successi scintillanti e citazioni motivazionali, come se la sofferenza fosse solo il riflesso di un nostro fallimento interiore, il segno che non abbiamo abbastanza forza di volontà per essere felici.
Ma è davvero così? O forse questa idea della felicità come un traguardo obbligato è una trappola? Molti autori contemporanei ci ricordano che lo è: una promessa ingannevole che ci tiene incatenati alla ricerca di qualcosa che ci sfugge continuamente di mano. Fin da piccoli ci hanno insegnato a controllare le nostre emozioni, a reprimere il dolore, a cancellare ogni segno di fragilità. “Tirati su!”, “Non essere triste!”, “Sii positivo!” – frasi che abbiamo sentito mille volte, quasi fossero comandi. Eppure, più cerchiamo di cancellare la tristezza, più essa si insinua in ogni angolo della nostra mente, più diventa ingombrante.
La terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT) ci mostra un paradosso potente: più combattiamo contro la tristezza, più essa cresce. Come un’ombra che si allunga mentre fuggiamo dalla luce. Questo vale per l’ansia, per la paura, per ogni emozione che ci è stata insegnata a evitare. Ma il dolore non è un malfunzionamento, non è una patologia da estirpare: è la condizione umana stessa. Ci feriamo perché ci importa. Soffriamo perché siamo vivi.
Eppure, ci hanno convinto che il benessere sia una questione di controllo, che la felicità possa essere misurata, prevista, ridotta a una formula matematica. Viviamo nella “Happycracy”, un’epoca in cui la felicità è diventata un prodotto da vendere, un’illusione di perfezione che ci lascia sempre più vuoti e lontani da noi stessi.
Ma forse, invece di fuggire dalla tristezza, possiamo accoglierla. Forse possiamo smettere di lottare contro le nostre emozioni e iniziare a viverle. L’ACT ci insegna che non dobbiamo identificarci con i nostri pensieri né esserne prigionieri. Possiamo osservarli, lasciare che scorrano come nuvole nel cielo, senza doverci aggrappare a essi. E poi possiamo chiederci: cosa conta davvero per noi? Quali sono i valori che vogliamo incarnare, indipendentemente da come ci sentiamo?
Forse la vera libertà non sta nell’essere sempre felici, ma nell’essere pienamente vivi. Nel permetterci di sentire, di sbagliare, di cadere, di rialzarci. Nel riconoscere che la nostra vita ha valore non perché sia perfetta, ma perché è autentica. Anche nella tristezza, anche nel dolore, possiamo ancora scegliere di muoverci verso ciò che è importante per noi.
Non abbiamo bisogno di fuggire dalla nostra umanità. Abbiamo solo bisogno di riscoprirla.